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I Manichei: la verità a buon mercato

Agostino di Ippona - Storia di un ritorno

Dell'opera di Cicerone gli dispiaceva solo che non conteneva il nome di Gesù. Le Scritture, che contenevano quel nome, lo avevano deluso. A chi rivolgersi? C'era qualcuno a Cartagine che parlava di Gesù e prometteva chiarezza e verità su tutto, senza pretendere alcuna obbedienza di fede: la setta dei Manichei. Agostino allora si affida a loro sperando di trovare presso di loro la vera sapienza che aveva cominciato a inseguire con tutta l'anima.

"Così finii tra uomini orgogliosi e farneticanti, carnali e ciarlieri all'eccesso. Nella loro bocca si mescolavano le sillabe del tuo nome con quelle del Signore Gesù Cristo e del Paraclito, lo Spirito Santo nostro consolatore. Questi nomi erano sempre sulle loro labbra, ma soltanto come suoni e strepito della lingua; per il resto il loro cuore era vuoto di verità. Ripetevano: verità, verità, e ne facevano un gran parlare con me, eppure mai la possedevano e dicevano il falso non soltanto su di te, ma anche su questi principi di questo mondo che da te sono creati. O Verità, Verità, come già allora e dalle intime fibre del mio cuore sospiravo verso di te, mentre quella gente mi stordiva spesso e in vario modo con il solo suono del tuo nome e la moltitudine dei suoi pesanti volumi. Nei vassoi che offrivano alla mia fame di te, invece di te mi presentavano il sole e la luna, creature tue, e belle, ma pur sempre creature, mentre io dite sola, Verità, avevo fame e sete” (Conf. III, 6.10).

I Manichei avevano anche una risposta, assai comoda, circa il problema del male. Ammettevano infatti un principio buono, assoluto, Dio, e un principio cattivo, ugualmente assoluto, che avrebbe dato origine alla materia. L'uomo in fondo non sarebbe responsabile del male che compie perché proviene dal principio cattivo, dalla materia di cui è impastato. “Ignaro della vera realtà ero indotto ad approvare quelle che sembravano acute obiezioni dei miei stolti seduttori, quando mi chiedevano quale fosse l'origine del male, se Dio fosse circoscritto da una forma corporea. Io, ignorante in materia, ne rimanevo scosso. Mentre mi allontanavo dalla verità, credevo di camminare verso di lei senza sapere che il male non è se non privazione del bene fino al nulla assoluto. Dove avrei potuto vedere la verità, se i miei occhi non vedevano oltre i corpi? Non sapevo che Dio è spirito, non un essere esteso in lunghezza e larghezza, quindi senza membra e corpo" (Conf. III, 13).

Agostino era inoltre colpito dalle critiche che i Manichei facevano alla Sacra Scrittura: certi personaggi, come Abramo e Isacco e Giacobbe ed altri ancora, lodati dalla bocca di Dio, hanno tuttavia compiuto azioni disoneste. “Forse - si domanda Agostino - la giustizia è varia e mutevole?” E con la saggezza e l'esperienza acquistate successivamente risponde: ”No, ma è il tempo da lei regolato che non procede sempre col medesimo passo. Allora non vedevo che la giustizia, cui obbedivano uomini dabbene e santi, costituiva un sistema unitario di precetti in una sfera ben più eccellente e sublime; che, immutabile in ogni sua parte, non li impone tutti simultaneamente a tempi diversi, ma quelli soltanto che sono appropriati a ciascuno (Conf. III, 7,13-14). Ignaro di tutto ciò, io deridevo i tuoi santi servi e profeti. E cosa ottenevo con la mia derisione se non la tua derisione? Poco alla volta mi era lasciato indurre a credere scempiaggini come queste: che il fico, quando viene colto, si mette a piangere lacrime di latte, e così pure la pianta sua madre. Se però un santone (Manicheo) mangia il fico - che altri naturalmente e non lui ha colto - da quel fico egli impasta nelle viscere e, fra i gemiti dell'orazione, erutta angeli, anzi particelle addirittura di Dio, che sarebbero rimaste prigioniere nel frutto se il dente, e il ventre, dell'eletto non le avesse liberate" (Conf. III, 10.18).

Finiti gli studi è ormai professore di retorica. Ritorna nella sua città natale, Tagaste, per insegnare. Ma non nella sua casa. La madre sgomenta, con la morte nel cuore, chiude la porta in faccia a questo figlio diventato manicheo. Andrà ad abitare nella casa dell'amico Romaniano, portando con sé il figlio Adeodato, che nel frattempo era nato dalla sua unione illegittima.

Monica sfoga il suo dolore versando abbondanti lacrime davanti a Dio. Dio la consola in sogno e con le parole di un vecchio vescovo. "Tu l'esaudisti, Signore. Perché da chi le venne il sogno consolatore, per il quale accettò di vivere con me e avere con me in casa la medesima mensa, che da principio, aveva rifiutato per avversione e disgusto del mio traviamento blasfemo? Le sembrò dunque di essere ritta sopra un regolo di legno, ove un giovane radioso ed ilare le andava incontro sorridendo, mentre era afflitta e accasciata dall'afflizione. II giovane le chiedeva i motivi della sua mestizia e delle lacrime che versava ogni giorno. Ella rispose che piangeva sulla mia perdizione. Allora l'altro la esortò a guardarsi intorno: non vedeva che là dov'era lei ero anch'io? Ella guardò e mi vide ritto al suo fianco sul medesimo regolo. Quando mi raccontò il suo sogno e io mi ingegnavo di convincerla che era lei piuttosto a non dover disperare di essere un giorno con me, senza un attimo di esitazione esclamò: «No, non mi fu detto: là dov'è lui sarai anche tu, ma: là dove sei tu sarà anche lui». Ti confesso, Signore, questo mio ricordo, in quanto mi rammento, né mai ne feci mistero, che ancor più del sogno in sé, mi scosse questa tua risposta per bocca di mia madre sveglia. Ricordo anche un secondo responso che desti nel frattempo per bocca di un certo vescovo nutrito nella chiesa ed esperto dei tuoi libri. Pregato da quella donna che si degnasse di trattenersi con me per confutare i miei errori, egli si rifiutò, ma soggiunse: «Lascialo stare dov'è. Prega soltanto il Signore per lui. Scoprirà da se stesso, leggendo, dove sia il suo errore e quanto sia grande la sua empietà». E poiché ella insisteva, con implorazioni e lacrime copiose, perché acconsentisse a vedermi, esclamò congedandola: «Possa tu vivere come non può essere che il figlio di tante lacrime perisca»" (Conf. III, 11 e 12).

 

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